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Femminismo sì, ma anticapitalista
di Mariarita Galentino
Le immagini delle marea femminista in lotta ormai in ogni angolo del pianeta tolgono il fiato e riempiono di speranza: donne, giovanissime, soggettività diverse, tutte insieme e tutte in piazza a gran voce. Numeri impressionanti che non si vedevano da tempo.
Proprio per questo è fondamentale assumere il femminismo respingendo il pericolo di un addomesticamento che lo rende innocuo, incapace di impensierire la mascolinità egemonica, e addirittura caro ad essa.
Ho già parlato del cosiddetto choice feminism: una favoletta che non crea conflitto e che è perfettamente funzionale al sistema di potere il quale, ormai da anni, vede in Italia l'alternarsi di una destra e sinistra liberali, a causa della scomparsa della sinistra socialista.
La fortuna del femminismo/giocattolo è nel suo stampo individualista, uno stampo tale da indebolire la presa di coscienza delle donne, facendo in modo che esse non si riconoscano come classe oppressa.
La parola più usata è regolamentare. Non abolire, ma regolamentare.
E l'assenza di un programma anticapitalista è la cosa che salta più all'occhio nelle mobilitazioni delle donne.
Lo stesso è avvenuto all'interno di una comunità, quella lgbt+, sempre più machista e imborghesita, impegnata a pretendere pari diritti, comunità nata per rivoluzionare e che invece ha finito per assorbire il mondo già esistente.
Si lotta contro l'eteronormatività e poi si chiede di ricalcare la famiglia borghese, il controllo del corpo delle donne attraverso contratti sofisticati e vincolanti, ci si spinge fino a voler assumere una storia fatta di parole (marito, moglie) pesanti e negative: ne viene fuori l'incapacità di una rivolta che sia definitivamente liberatoria.
Il sistema di potere che produce l'oppressione e lo sfruttamento femminile non va regolamentato, ma abolito, attraverso la lotta. Regolamentare lo sfruttamento fa parte del pacchetto neoliberista; abolire lo sfruttamento significa invece essere consapevoli che non si può chiedere al potere di moderare se stesso, perché il potere da sempre si base sull'assunto delle donne come merci e non come persone.
Concepire il corpo femminile come materia prima da estrarre, applicare tecniche nocive per la salute al fine di salvaguardare i privilegi dei committenti, spossessare la materia prima di qualunque rivendicazione perché la stessa è concepita unicamente in base alla sua funzione, altro non è che riduzione economicistica delle donne e della vita umana.
E ancora: regolamentare il sex work non è autodeterminazione, vuol dire (tra l'altro) dare la possibilità agli sfruttatori di arricchirsi illegalmente.
Trattare questi argomenti nel movimento delle donne è oggi estremamente complicato, si incontrano censure e resistenze.
La forza odiosa del neoliberismo è questa: stravolgere il significato delle parole e delle lotte. Si presenta come progressista, antisessista, antifascista, per inchinarsi di fatto al sistema di potere.
E davanti al potere le strade sono due: o si collabora o si lotta fino a smantellarlo dalle fondamenta.
Il femminismo non potrà mai essere riformista: patriarcato e capitalismo infatti attuano un'oppressione di tipo strutturale, basata sulle logiche di dominio, egemonia e possesso, presenti nella società tutta, non solo in ambito di sfruttamento femminile.
Per questo motivo la lotta non può solo essere sociale o culturale, ma anche e soprattutto economica, perché l'oppressione femminile non deriva solo da fattori culturali o sociali, ma anche economici.
L'indisponibilità del corpo è l'unica cultura da tener presente.
Né il femminismo né la comunità lgbt+ meritano di essere ricordati come i testimonial della bontà della pratiche del capitalismo in salsa fucsia.