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Coscienza e responsabilità
di Mariarita Galentino
Il 25 novembre non è mai una giornata qualsiasi, anzi, è la giornata di lotta per eccellenza, la giornata internazionale contro l'oppressione e la violenza più antica e vergognosa, quella maschile sulle donne, e contro la violenza di genere.
La violenza è trasversale, non c'è un mostro, non c'è un alieno, altrimenti sarebbe stato facile sconfiggerla. E nasce dalle parole, dal modo in cui il femminile viene dileggiato, insultato, schernito, ridicolizzato. Si ferma prima di tutto imparando a riconoscerla.
Essere donna è l’insulto peggiore, ci ha detto Jessica Valenti; e dal quel femminile ridicolizzato nasce l’omolesbotransfobia.
Il femminismo è rivoluzione pacifica, non perché le donne siano pacifiste per natura, ma perché un movimento che si prefigge di sconfiggere il patriarcato non può usare i suoi strumenti, né vestire i panni dell’avversario.
Non è ideologia e non è un modo per fondare partiti: è invece uno sguardo sul mondo, capace di produrre cambiamenti globali; è liberazione della soggettività femminile, ancora troppo indicibile e impensabile.
Femminismo, oggi più che mai, fa rima con anti-globalizzazione, ma prima ancora con coscienza.
Il neoliberismo è un sistema economico disumano, un mostro, che riduce alla fame il 70, se non l’80% di persone nel mondo, di cui la maggioranza sono donne e bambini.
“Ed è su questo che fa leva il potere oggi, nel villaggio globale, suonando le note seduttive della globalizzazione: perché faticare a intrecciare rapporti con la differenza, quando è l’avere, l’essere e il divenire uguali nel consumare acriticamente come il mercato ci vuole, il segreto dell’integrazione?”[1].
Una delle scommesse femministe di oggi deve essere quella di rifiutare la globalizzazione neoliberista, intesa non solo come sistema economico, ma anche come impostazione di una specifica cultura sulle altre[2]; rifiutare la commercializzazione di ogni dimensione della vita che non lascia spazio all’etica, all’ecologia, alla giustizia sociale.
Oltre che con coscienza, il femminismo fa rima con responsabilità, e con il coraggio di combattere e debellare le pratiche del capitalismo in salsa fucsia: l’industria del sesso e la riduzione economicista, la monetizzazione di una funzione umana femminile e della vita umana.
“Per la cultura maschile ci sono vari modi di sconfiggere le donne: uno è quello di ignorare sistematicamente la loro voce e di chiamarle in causa in modo falsificato: un altro è quello di gratificare come femminismo qualcosa che rientri nella cultura corrente e di cui farsi paladini e protettori…”[3].
Ecco, rifiutiamo una volta per sempre quel femminismo liberale, innocuo e modaiolo, incapace di creare conflitto, e facciamo nostro lo slogan che risuonava l’anno scorso nelle piazze di Madrid: “Il mio corpo non si vende, il mio utero non è affittabile”.
Siamo femministe perché come insegna Chimamanda Ngozi Adichie “usare un’espressione generica come attiviste dei diritti umani vuol dire negare la specificità del problema di genere, negare che il problema del genere riguarda le donne, la condizione dell’essere umano donna e non dell’essere umano in generale”[4].
Il femminismo radicale, abolizionista, intersezionale, rivoluzionario, non regolamenta le libertà e le lusinghe del patriarcato e del capitalismo, le distrugge; “combatte per liberare tutte le donne dalle strutture patriarcali di oppressione, chiede che le donne sfidino le condizioni materiali dell’oppressione.
Il neoliberismo non chiede nulla per le donne, e chi lo sceglie ha deciso di non combattere il patriarcato per liberarsi dalla gabbia in cui tutte viviamo oppresse, ma di rendere quella gabbia più comoda per se stessa”[5].
[1] M. Lanfranco, Letteralmente femminista. Perché è ancora necessario il movimento delle donne
[2] V. Shiva, Monoculture della mente
[3] C. Lonzi, Taci, anzi parla, diario di una femminista – scritti di Rivolta Femminile
[4] C. N. Adichie, Dovremmo essere tutti femministi
[5] J. Mehat, Shit liberal feminist says: Choice, traduzione tratta da Il ricciocorno schiattoso
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