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Lavoro salariato e capitale. Parte V

Lavoro salariato e capitale. Parte V

di Karl Marx

L’accrescimento del capitale produttivo e l’aumento del salario sono però davvero così inseparabilmente uniti come pretendono gli economisti borghesi? Non dobbiamo creder loro sulla parola. Non dobbiamo nemmeno creder loro che, quanto più florido è il capitale, tanto meglio viene ingrassato il suo schiavo. La borghesia è troppo intelligente, essa sa fare i conti troppo bene, per condividere i pregiudizi dei signori feudali, i quali si vantavano dello sfarzo della loro servitù. Le condizioni di esistenza della borghesia la costringono a calcolare.

Dobbiamo quindi esaminare più da vicino la questione seguente:

Quale influenza esercita sul salario l’accrescimento del capitale produttivo?

Se il capitale produttivo della società borghese si accresce nel suo insieme, ha luogo una accumulazione di lavoro più vasta. I capitalisti crescono di numero, i loro capitali crescono di dimensione. L’aumento del numero dei capitali aumenta la concorrenza fra i capitalisti. La crescente dimensione dei capitali fornisce i mezzi per portare sul campo di battaglia dell’industria eserciti sempre più potenti di operai, con strumenti di guerra sempre più giganteschi.

Un capitalista può cacciare l’altro dal campo e conquistare il suo capitale solamente vendendo più a buon mercato. Per poter vendere più a buon mercato senza rovinarsi, deve produrre più a buon mercato, cioè aumentare quanto più è possibile la forza produttiva del lavoro. La forza produttiva del lavoro viene però aumentata, innanzi tutto, con una maggiore divisione del lavoro, con un’introduzione generale e un perfezionamento costante del macchinario. Quanto più grande è l’esercito degli operai fra i quali il lavoro viene diviso, quanto più gigantesca è la scala in cui vengono introdotte le macchine, tanto più diminuiscono proporzionalmente i costi di produzione, tanto più fruttuoso diventa il lavoro. Sorge quindi una gara generale fra i capitalisti per accrescere la divisione del lavoro e il macchinario e per sfruttarli sulla scala più grande che sia possibile.

Se ora un capitalista, con una più grande divisione del lavoro, con l’impiego e col perfezionamento di nuove macchine, con uno sfruttamento più vantaggioso e più grandioso delle forze naturali, ha trovato il modo di produrre con la stessa quantità di lavoro o di lavoro accumulato una maggiore quantità di prodotti, di merci, che i suoi concorrenti; se, per esempio, nello stesso tempo di lavoro in cui i suoi concorrenti tessono un mezzo braccio di tela, egli può produrne un braccio, come si comporterà?

Egli potrebbe continuare a vendere mezzo braccio di tela al precedente prezzo di mercato; ma questo non sarebbe un mezzo per eliminare i suoi avversari e aumentare il proprio smercio. Ma nella stessa misura in cui si è estesa la sua produzione, si è esteso il suo bisogno di smercio. I mezzi di produzione più potenti e più costosi ch’egli ha messo in azione gli danno la capacità di vendere le sue merci più a buon mercato, ma lo costringono in pari tempo a vendere più merci, a conquistare un mercato incomparabilmente più vasto per le sue merci. Il nostro capitalista venderà dunque il mezzo braccio di tela più a buon mercato dei suoi concorrenti.

Ma il capitalista non venderà l’intero braccio di tela allo stesso prezzo a cui i suoi concorrenti vendono il mezzo braccio, quantunque la produzione di un intero braccio a lui non costi più di quanto costi agli altri la produzione di mezzo braccio. Se facesse così, non realizzerebbe dei guadagni straordinari, non farebbe che riavere in cambio i costi di produzione. La sua eventuale maggiore entrata dipenderebbe in tal caso soltanto dal fatto che egli ha messo in movimento un capitale più grande, e non dal fatto di aver valorizzato il suo capitale in misura maggiore degli altri. Inoltre, se fissa il prezzo della sua merce soltanto di qualche unità percentuale più in basso dei suoi concorrenti, egli raggiunge lo scopo che vuol raggiungere. Egli li elimina, egli strappa loro almeno una parte del loro smercio, vendendo a un prezzo inferiore. E infine, ricordiamo che il prezzo corrente sta sempre al di sopra o al di sotto dei costi di produzione, a seconda che la vendita di una merce cade nella stagione favorevole o sfavorevole all’industria. A seconda che il prezzo di mercato della tela sta al di sopra o al di sotto dei costi di produzione che prima le erano abituali, varia la percentuale con cui il capitalista, che ha impiegato mezzi di produzione nuovi e più fruttuosi, vende al di sopra dei suoi costi di produzione reali.

Ma il privilegio del nostro capitalista non è di lunga durata; altri capitalisti concorrenti introducono le stesse macchine, la stessa divisione del lavoro, lo fanno su una stessa scala o su una scala più grande, e così questa introduzione diventa generale, fino a che il prezzo della tela cade non soltanto al di sotto dei suoi vecchi costi di produzione, ma al di sotto dei nuovi.

I capitalisti si trovano dunque, reciprocamente, nella stessa situazione in cui si trovavano prima dell’introduzione dei nuovi mezzi di produzione; e se essi possono, con questi mezzi, portare al mercato agli stessi prezzi una quantità doppia di prodotti, sono però costretti ora a vendere questo doppio prodotto al di sotto del vecchio prezzo. Sulla base di questi nuovi costi di produzione ricomincia lo stesso giuoco. Maggiore divisione del lavoro, più macchinario, una scala più grande su cui vengono sfruttati la divisione del lavoro e il macchinario. E la concorrenza produce nuovamente la stessa reazione a questo risultato.

Vediamo dunque che così il modo di produzione, i mezzi di produzione, sono costantemente sconvolti, rivoluzionati, che la divisione del lavoro porta con sé necessariamente una maggiore divisione del lavoro; l’impiego di macchine, un maggior impiego di macchine; il lavoro su vasta scala, un lavoro su scala ancora più vasta.

È questa la legge che di continuo getta la produzione borghese fuori del suo vecchio binario e costringe il capitale a intensificare sempre più le forze produttive del lavoro, perché esso le ha intensificate una prima volta; la legge che non gli concede nessuna tregua e gli mormora senza interruzione: Avanti! Avanti!

Questa legge non è altro che la legge la quale, entro i limiti delle oscillazioni dei cicli commerciali, riconduce necessariamente il prezzo di una merce ai suoi costi di produzione.

Per quanto potenti siano i mezzi di produzione che un capitalista mette in campo, la concorrenza generalizzerà questi mezzi di produzione, e, a partire dal momento che essa li ha generalizzati, l’unico vantaggio della maggiore produttività del suo capitale è che egli ora dovrà fornire al mercato per lo stesso prezzo, dieci, venti, cento volte più merci di prima. Ma poiché egli dovrà forse vendere mille volte di più per compensare con una maggiore massa di prodotti venduti il prezzo di vendita più basso; poiché una vendita molto più larga è ora necessaria non soltanto per guadagnare, ma per reintegrare i costi di produzione, lo strumento di produzione stesso diventa, come abbiamo visto, sempre più caro, poiché questa vendita così larga è divenuta una questione di vita o di morte non solo per lui, ma anche per i suoi rivali; per questo la vecchia lotta ricomincia tanto più aspra, quanto più fruttuosi sono i mezzi di produzione già scoperti. La divisione del lavoro e l’impiego del macchinario proseguiranno dunque a svilupparsi sempre più, in misura sempre più grande.

Qualunque sia la potenza dei mezzi di produzione impiegati, la concorrenza cerca di rapire al capitale i frutti dorati di questa potenza, riconducendo il prezzo della merce ai costi di produzione; facendo sì che, nella misura in cui si può produrre di più a buon mercato, cioè nella misura in cui si può produrre di più con la stessa somma di lavoro, la produzione più a buon mercato, la fornitura di masse sempre maggiori di prodotti per lo stesso prezzo diventi una legge inesorabile. In tal modo con i suoi sforzi il capitalista non avrebbe guadagnato nient’altro che l’obbligo di produrre di più nello stesso tempo di lavoro, in una parola, nient’altro che condizioni più difficili di valorizzazione del suo capitale. Mentre la concorrenza lo perseguita senza tregua con la sua legge dei costi di produzione e ogni arma che egli forgia contro i suoi rivali si ritorce contro lui stesso, il capitalista cerca continuamente di superare la concorrenza sostituendo senza tregua al vecchio macchinario e alla vecchia divisione del lavoro macchinari nuovi e nuove divisioni del lavoro, più costose, ma che producono più a buon mercato, e ciò senza attendere che la concorrenza abbia rese vecchie anche le nuove.

Se ci rappresentiamo questa agitazione febbrile contemporaneamente su tutto il mercato mondiale, comprenderemo come l’aumento, l’accumulazione e la concentrazione del capitale hanno come conseguenza una divisione del lavoro ininterrotta, che travolge se stessa e viene introdotta su una scala sempre più gigantesca, un ininterrotto impiego di nuovo macchinario e il perfezionamento del vecchio.

Ma come agiscono queste circostanze, le quali sono inseparabili dall’aumento del capitale produttivo, sulla determinazione del salario?

La maggiore divisione del lavoro rende capace un operaio di fare il lavoro di cinque, di dieci, di venti; essa aumenta quindi di cinque, di dieci, di venti volte la concorrenza fra gli operai. Gli operai si fanno concorrenza non soltanto vedendosi più a buon mercato l’uno dell’altro; essi si fanno concorrenza nella misura in cui uno fa il lavoro di cinque, di dieci, di venti, e la divisione del lavoro, introdotta dal capitale e sempre accresciuta, costringe gli operai a farsi questo genere di concorrenza.

Inoltre, nella stessa misura in cui la divisione del lavoro aumenta, il lavoro si semplifica. L’abilità particolare dell’operaio perde il suo valore. Egli viene trasformato in una forza produttiva semplice, monotona, che non deve più far ricorso a nessuno sforzo fisico e mentale. Il suo lavoro diventa lavoro accessibile a tutti. Perciò da ogni parte si precipitano su di lui dei concorrenti; e ricordiamo inoltre che quanto più il lavoro è semplice, quanto più facilmente lo si impara, quanto minori costi di produzione occorrono per rendersene padroni, tanto più in basso cade il salario, perché, come il prezzo di qualsiasi altra merce, esso è determinato dai costi di produzione.

Nella misura, dunque, in cui il lavoro diventa tedioso e privo di soddisfazioni, nella stessa misura aumenta la concorrenza e diminuisce il salario. L’operaio cerca di conservare la massa del suo salario lavorando di più, sia lavorando più ore, sia producendo di più nella stessa ora. Spinto dal bisogno, egli rende ancora più gravi gli effetti malefici della divisione del lavoro. Il risultato è il seguente: più egli lavora, meno salario riceve, e ciò per la semplice ragione che nella stessa misura in cui egli fa concorrenza ai suoi compagni di lavoro, egli si fa di questi compagni di lavoro altrettanti concorrenti, che si offrono alle stesse cattive condizioni alle quali egli si offre, perché, in ultima analisi, egli fa concorrenza a se stesso, a se stesso in quanto membro della classe operaia.

Le macchine portano agli stessi risultati su una scala molto più vasta, perché sostituiscono operai qualificati con operai non qualificati, uomini con donne, adulti con ragazzi, perché le macchine là dove vengono introdotte per la prima volta gettano sul lastrico masse enormi di operai manuali, e dove vengono migliorate e perfezionate, sostituite ad altre più redditizie, provocano il licenziamento degli operai a gruppi più piccoli. Abbiamo già tracciato a grandi tratti il quadro della guerra industriale fra capitalisti; questa guerra ha come carattere specifico che le battaglie in essa vengono vinte meno con l’arruolamento di nuove armate di operai che con il loro licenziamento. I comandanti, i capitalisti, fanno a gara a chi può licenziare il maggior numero di soldati dell’industria.

È vero che gli economisti ci raccontano che gli operai resi superflui dalle macchine trovano lavoro in nuove branche dell’industria.

Essi non osano sostenere direttamente che gli stessi operai che vengono licenziati trovino un rifugio in nuovi rami di lavoro. I fatti gridano troppo forte contro questa menzogna. Essi si limitano ad affermare che per altre parti costitutive della classe operaia, per esempio per quella parte della giovane generazione operaia che era già pronta a entrare nel ramo dell’industria rovinato, si apriranno nuovi campi di impiego. Ciò costituisce, evidentemente, una grande soddisfazione per gli operai colpiti. Ai signori capitalisti non mancheranno carne e sangue freschi da sfruttare; si lascerà che i morti seppelliscano i loro morti. È questo un conforto che i borghesi concedono più a se stessi che agli operai. Se tutta la classe dei salariati fosse distrutta dalle macchine, che cosa terribile per il capitale, il quale senza lavoro salariato cessa di essere capitale!

Ma supponiamo pure che gli operai, che le macchine hanno eliminato dal lavoro direttamente, e tutta quella parte della nuova generazione, la quale già era in attesa di essere assunta in quel ramo, trovino una nuova occupazione. Credete voi che tale occupazione sarà retribuita come quella che è andata perduta? Ciò sarebbe in contraddizione con tutte le leggi dell’economia. Abbiamo visto come l’industria moderna tenda sempre a sostituire a una occupazione complessa, superiore, una occupazione più semplice, di ordine inferiore.

Come potrebbe dunque una massa di operai, che le macchine hanno espulso da una branca dell’industria, trovare rifugio in un’altra, a meno che non sia pagata peggio, con un salario inferiore?

Sono stati citati come eccezione gli operai che lavorano alla fabbricazione delle macchine stesse. Non appena nell’industria si richiedono e consumano più macchine, le macchine devono necessariamente aumentare, quindi anche la fabbricazione di macchine, quindi anche l’occupazione degli operai che lavorano alla fabbricazione di macchine; e gli operai occupati in questa branca d’industria sarebbero operai qualificati, anzi operai specializzati.

A partire dal 1840 questa affermazione, già prima vera soltanto per metà, ha perduto ogni parvenza di verità, in quanto per la fabbricazione delle macchine si impiegano in modo sempre più generale le macchine, né più né meno che per la fabbricazione del filo di cotone, e gli operai occupati nelle fabbriche di macchine tengono soltanto più il posto di macchine estremamente imperfette di fronte a macchine estremamente perfezionate.

Ma al posto dell’uomo che la macchina ha eliminato, la fabbrica occupa forse ora tre ragazzi e una donna. Il salario dell’uomo non avrebbe dovuto bastare per tre bambini e una donna? Il salario minimo non avrebbe dovuto bastare per conservare e accrescere la razza? Che cosa prova dunque questa affermazione così cara ai borghesi? Essa non prova altro, se non che ora vengono consumate quattro volte più vite operaie di prima, per guadagnare il sostentamento di una sola famiglia operaia.

Riassumendo: quanto più il capitale produttivo cresce, tanto più si estendono la divisione del lavoro e l’impiego della macchine. Quanto più la divisione del lavoro e l’impiego della macchine si estendono, tanto più si estende la concorrenza fra gli operai, tanto più si contrae il loro salario.

Per di più, la classe operaia si recluta anche fra gli strati più alti della società; in essa va a finire una massa di piccoli industriali e di gente che viveva di una piccola rendita, che non ha nulla di più urgente da fare che il levare le braccia accanto alle braccia degli operai. Così la foresta delle braccia tese in alto e imploranti lavoro si fa sempre più folta, e le braccia stesse si fanno sempre più scarne.

Il fatto che il piccolo industriale non può sopravvivere a questa guerra, in cui una delle prime condizioni è di produrre su una scala sempre più vasta, cioè di essere appunto un grande e non un piccolo industriale, si comprende da sé.

Il fatto che l’interesse del capitale diminuisce nella stessa misura in cui la massa e il numero dei capitali aumentano, nella misura in cui il capitale cresce, e che perciò colui che vive di una piccola rendita non può più vivere della sua rendita e deve buttarsi nell’industria, contribuendo con ciò a ingrossare le file dei piccoli industriali, e quindi dei candidati al proletariato, tutto questo non ha bisogno di essere maggiormente chiarito.

Infine, nella misura in cui i capitalisti sono costretti, dal movimento che abbiamo descritto, a sfruttare su una scala più grande i mezzi di produzione giganteschi già esistenti, e a mettere in moto per questo scopo tutte le leve del credito, nella stessa misura aumentano i terremoti, in cui il mondo del commercio si mantiene soltanto sacrificando agli dèi inferi una parte della ricchezza, dei prodotti e persino delle forze produttive: in una parola, nella stessa misura aumentano le crisi. Esse diventano più frequenti e più forti per il solo fatto che, nella misura in cui la massa della produzione, cioè il bisogno di estesi mercati, diventa più grande, il mercato mondiale sempre più si contrae, i nuovi mercati da sfruttare si fanno sempre più rari, poiché ogni crisi precedente ha già conquistato al commercio mondiale un mercato fino ad allora non conquistato o sfruttato dal commercio soltanto in modo superficiale. Ma il capitale non vive soltanto del lavoro. Signore ad un tempo barbaro e grandioso, esso trascina con sé nell’abisso i cadaveri dei suoi schiavi, intere ecatombe di operai che periscono nelle crisi. Noi vediamo dunque che, se il capitale cresce rapidamente, cresce in modo incomparabilmente più rapido la concorrenza fra gli operai, cioè sempre più diminuiscono proporzionalmente i mezzi di occupazione, i mezzi di sussistenza per la classe operaia e ad onta di ciò il rapido aumento del capitale è la condizione più favorevole per il lavoro salariato.

Ultima modifica ilMartedì, 15 Novembre 2022 14:38
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