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Vertigine dei successi
breve introduzione di Manuel Santoro
Il 2 marzo del 1930, Stalin scriveva il famoso articolo “Vertigine dei successi” in cui analizzava i successi del movimento kolchoziano ed esprimeva critiche sulla prassi della collettivizzazione la quale si allontanava, deviava spesso clamorosamente, dalle direttive leniniste del partito. Agli inizi del ’30, la collettivizzazione procedeva abbastanza bene, in anticipo rispetto a quanto previsto dal piano quinquennale. Ciò, riporta Stalin nel suo intervento, era da ritenersi sicuramente un successo della classe operaia, classe egemone nei confronti della parte povera della classe contadina, e del partito. Difatti, era compito del partito in questa grande opera di costruzione del socialismo e di coinvolgimento, assorbimento del mondo contadino nel socialismo, di “consolidare i successi riportati e valersene sistematicamente per l’ulteriore marcia in avanti”.
Emergevano però delle problematiche, che Stalin analizza, nei confronti delle quali il partito doveva dare risposte certe. Ovvero, nocivi e controproducenti potevano essere i sentimenti di “presunzione” e di “superbia” per i successi ottenuti nella collettivizzazione. Successi che aprivano le porte alla “vertigine dei successi”; vertigine che causa perdita del “senso della misura”, perdita della “capacità di comprendere la realtà”, amplificazione della “tendenza a sopravvalutare le proprie forze e svalutare le forze dell’avversario”. Il compito del partito era, quindi, quello di “condurre una lotta decisa contro questi stati d’animo pericolosi e nocivi al lavoro costruttivo, e liberarne il partito”.
Ma quali erano queste pericolose mancanze nella prassi, queste deviazioni antileniniste? L’allontanamento dal principio della volontarietà e dal principio dialettico delle diverse fasi di sviluppo tra le diverse regioni dell’Unione Sovietica.
La politica del partito marxista-leninista, difatti, “si fonda sulla volontarietà della collettivizzazione e tiene conto delle differenti condizioni delle diverse regioni dell’U.R.S.S. Non si possono impiantare i kolchozy per forza”, scrive Stalin nel suo intervento, rimarcando precisamente la linea di Lenin. Nel lungo processo di ‘socializzazione’ della classe contadina, abituata per millenni a un lavoro e a una organizzazione del lavoro prettamente individualista, bisognava usare la dialettica in modo molto oculato cercando di analizzare e risolvere le contraddizioni che ci si presentavano davanti, senza forzature, senza voli pindarici. Era necessario “determinare il ritmo e i metodi della collettivizzazione, valutare con grande cura le differenti condizioni nelle diverse regioni dell’U.R.S.S.”
Tra le diverse regioni dell’Unione Sovietica, che come abbiamo appena rimarcato seguono fasi di sviluppo diverse all’interno del processo di collettivizzazione, di primaria importanza sono le regioni cerealicole in cui “i contadini hanno avuto la possibilità di convincersi della forza e dell’importanza della nuova organizzazione collettiva dell’economia.” I benefici della nuova organizzazione del lavoro che attendeva la classe contadina e che, grazie al movimento di collettivizzazione agricola, cominciavano ad emergere, erano già chiari a Lenin: “l’organizzazione feudale del lavoro sociale poggiava sulla disciplina del bastone, quando i lavoratori, spogliati e vessati da un pugno di grandi proprietari fondiari, erano estremamente ignoranti e abbrutiti. L’organizzazione capitalistica del lavoro sociale poggiava sulla disciplina imposta dalla fame, e la grandissima massa dei lavoratori, nonostante tutto il progresso della cultura borghese e della democrazia borghese, restava, anche nelle repubbliche più avanzate, civili e democratiche, una massa ignorante e timorosa di schiavi salariati o di contadini schiacciati, spogliati e vessati da un pugno di capitalisti. L’organizzazione comunista del lavoro sociale, di cui il socialismo rappresenta il primo passo, poggia e poggerà sempre più, sulla disciplina libera e cosciente dei lavoratori stessi, che hanno scosso il giogo dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti.” [1]
Seguendo Lenin, “i bolscevichi avevano incoraggiato i contadini a formare ogni tipo di cooperative e avevano creato, a titolo di esperimento, i primi kolchozy, fattorie collettive.” [2] La via maestra del partito è sempre stata la persuasione, l’incoraggiamento nei confronti dei contadini e soprattutto dei medi, dato che i contadini poveri vedevano già nell’opera di organizzazione socialista delle campagne, anche se mancavano di conoscenza e strumenti, una liberazione dall’oppressione da parte dei kulaki. Difatti, è assolutamente falso che la collettivizzazione sia stata ‘imposta’ dal partito e da Stalin. Riporta Martens che “l’impulso essenziale per gli episodi violenti della collettivizzazione veniva dalle masse contadine più oppresse. Esse non vedevano altra via d’uscita al di fuori della collettivizzazione.” [3] E, inoltre, “nelle campagne la spinta essenziale della collettivizzazione proveniva dai contadini più oppressi. Il Partito ha preparato e dato inizio alla collettivizzazione, i comunisti delle città le hanno dato un inquadramento, ma il gigantesco sconvolgimento delle abitudini contadine non avrebbe potuto verificarsi se i contadini più oppressi non fossero stati convinti della sua necessità.” [4]
Oltre alla fondamentale questione dell’incoraggiamento e della persuasione dei contadini, posizione ufficiale del partito relativamente alla collettivizzazione, vi era la problematica sul diverso trattamento da portare alle diverse regioni dell’Unione Sovietica, tenendo conto delle diverse fasi di sviluppo. Le regioni cerealicole non erano nelle stesse condizioni delle “regioni consumatrici”. Scrive Stalin che “il principio di tenere conto delle differenti condizioni delle diverse regioni dell’U.R.S.S., del pari che il principio della volontarietà, è una delle premesse più serie di un sano movimento kolchoziano.” Era, quindi, da evitare secondo il partito staliniano il burocratismo, tipica accusa dei trotskisti nei confronti di Stalin ma atteggiamento in verità prettamente trotskista e reazionario. Era da evitare “la proclamazione dei kolchozy a colpi di decreti burocratici.” In effetti, la fase della collettivizzazione agli inizi degli anni ’30 prevedeva l’avvio e il consolidamento dell’artel agricolo, ovvero quell’organizzazione del lavoro sociale nelle campagne che, in quanto a fase di sviluppo, era sì nel futuro rispetto all’associazione per la lavorazione in comune della terra in cui mezzi di produzione non erano di proprietà comune, ma indietro rispetto alla comune agricola in cui oltre alla socializzazione della produzione vi è la socializzazione della distribuzione. Nella fase della collettivizzazione in cui questo intervento di Stalin emerge in tutta la sua potenza, l’artel agricolo è “l’anello principale del movimento kolchoziano, la sua forma predominante nel momento attuale, la forma a cui ci si deve aggrappare ora.” Scrive Stalin che “nell’artel agricolo vengono collettivizzati i principali mezzi di produzione, soprattutto quelli per la produzione del grano: il lavoro, la coltivazione della terra, le macchine e il rimanente inventario agricolo, il bestiame da lavoro, gli edifici agricoli. Non sono invece collettivizzati: il terreno attinente alla casa (piccoli orti e giardini), gli edifici a uso di abitazione, una parte del bestiame da latte, il bestiame minuto, il pollame da cortile, ecc. L’artel è l’anello principale del movimento di collettivizzazione perché è la forma più adatta alla soluzione del problema del grano”.
E il problema del grano andava risolto poiché è proprio sulle carestie degli anni successivi causate dal metodo di lavoro non ancora ‘elettrificato’ e dalla guerra contro i kulaki i quali sterminarono una quantità gigantesca di mezzi di produzione, che le borghesie imperialiste, gli zaristi, i trotskisti insieme al resto della truppa controrivoluzionaria, imposteranno la loro becera propaganda menzognera. L’artel in questa fase deve essere consolidato, rafforzato per risolvere il problema del grano, poiché tale problema “è a sua volta l’anello principale nel sistema di tutta l’agricoltura, perché se non si risolve il problema del grano non è possibile risolvere né il problema dell’allevamento del bestiame (minuto e grande), né il problema delle culture industriali e speciali, che forniscono le materie prime fondamentali per l’industria.”
[1] V. Lenin, La grande iniziativa, Roma, Editori Riuniti, 1967, vol. 29, p. 383
[2] L. Martens, Stalin un altro punto di vista, Zambon Editore, 2020, p. 108
[3] Ivi., p. 121
[4] Ivi, p. 122
Vertigine dei successi, di Joseph Stalin
SULLE QUESTIONI DEL MOVIMENTO DI COLLETTIVIZZAZIONE AGRICOLA
Dei successi del potere dei Soviet nel campo del movimento di collettivizzazione agricola oggi parlano tutti. Persino i nemici sono costretti a riconoscere l'esistenza di seri successi. E questi successi, in realtà, sono grandi.
È un fatto che il 20 febbraio di quest'anno era già collettivizzato il 50% delle aziende contadine dell'U.R.S.S. Ciò vuol dire che il 20 febbraio 1930 avevamo superato più di due volte il piano quinquennale.
È un fatto che il 28 febbraio di quest'anno i kolchozy erano già riusciti a mettere in serbo per le semine primaverili più di 36 milioni di quintali, cioè più del 90% del piano, ossia circa 220 milioni di pudi. Nessuno può negare che l’aver raccolto 220 milioni di pudi di sementi soltanto nei kolchozy, dopo aver realizzato con successo il piano di compera di grano da parte dello Stato, rappresenta un successo enorme.
Che cosa dicono tutte queste cose?
Dicono che si può ormai considerare come garantita una radicale svolta della campagna verso il socialismo.
È superfluo dimostrare che questi successi hanno un'importanza enorme per i destini del nostro paese, per tutta la classe operaia, forza dirigente del nostro paese, e infine, per il partito stesso. Senza parlare dei risultati pratici immediati, questi successi hanno un'importanza enorme per la vita interna del partito stesso, per l'educazione del nostro partito. Essi infondono nel nostro partito un senso di sicurezza in se stesso, la fiducia nelle proprie forze. Essi infondono nella classe operaia la fiducia nella vittoria della nostra causa. Essi portano al nostro partito nuove riserve di milioni di uomini.
Di qui il compito del partito: consolidare i successi riportati e valersene sistematicamente per l'ulteriore marcia in avanti.
I successi hanno però anche le loro ombre, soprattutto quando essi sono ottenuti con una “facilità” relativa, e giungono per così dire “inattesi”. Simili successi alimentano talora la presunzione e la superbia: “Tutto possiamo!”, “Che c'importa degli ostacoli!”. Essi, questi successi, non di rado inebriano la gente, e allora s'incomincia ad avere la vertigine dei successi, allora si perde il senso della misura, si perde la capacità di comprendere la realtà, sorge la tendenza a sopravvalutare le proprie forze e svalutare le forze dell'avversario, si fanno tentativi temerari di risolvere “in quattro e quattr'otto” tutte le questioni dell'edificazione socialista. Allora non c'è più modo di ricordarsi che i successi riportati debbono essere consolidati e che si deve valersene sistematicamente per un'ulteriore marcia in avanti. A che scopo consolidare i successi riportati? Anche così dicono, possiamo arrivare, “in quattro e quattr'otto”, alla vittoria completa del socialismo. “Tutto possiamo!”, “Che c'importa degli ostacoli!”.
Di qui il compito del partito: condurre una lotta decisa contro questi stati d'animo pericolosi e nocivi al lavoro costruttivo, e liberarne il partito.
Non si può dire che queste tendenze pericolose e nocive abbiano una diffusione più o meno ampia nelle file del nostro partito. Esse però esistono e non c'è motivo per affermare che non si rafforzeranno. E se ottengono tra di noi diritto di cittadinanza, non v'è dubbio che il movimento kolchoziano subirà un indebolimento notevole e il pericolo di vederlo fallire potrà diventare reale.
Di qui il compito della nostra stampa: smascherare in modo sistematico queste e simili tendenze antileniniste.
Alcuni fatti.
1 - I successi della nostra politica di collettivizzazione agricola si spiegano, tra l'altro, col fatto che questa politica si fonda sulla volontarietà del movimento di collettivizzazione e tiene conto delle differenti condizioni delle diverse regioni dell'U.R.S.S. Non si possono impiantare i kolchozy per forza. Sarebbe stupido e reazionario. Il movimento di collettivizzazione agricola deve poggiare sul sostegno attivo delle masse fondamentali dei contadini. Non si possono trapiantare meccanicamente nelle regioni meno sviluppate le forme di collettivizzazione delle regioni sviluppate. Sarebbe stupido e reazionario. Una simile “politica” discrediterebbe di colpo l'idea della collettivizzazione. È necessario, nel determinare il ritmo e i metodi della collettivizzazione, valutare con grande cura le differenti condizioni nelle diverse regioni dell'U.R.S.S.
Nel movimento kolchoziano, alla testa di tutte le altre, vengono le regioni cerealicole. Perché? Perché, in primo luogo, in queste regioni abbiamo una maggiore quantità di sovchozy e di kolchozy già consolidati, grazie ai quali i contadini hanno avuto la possibilità di convincersi della forza e dell'importanza della nuova tecnica, della forza e dell'importanza della nuova organizzazione collettiva dell'economia. Perché, in secondo luogo, queste regioni hanno al loro attivo una scuola di due anni di lotta contro i kulak nel periodo delle compere del grano da parte dello Stato, il che non poteva non favorire la causa della collettivizzazione. Perché infine, queste regioni negli ultimi anni sono state provvedute in modo particolarmente intenso dei migliori quadri dai centri industriali.
Si può dire che queste condizioni particolarmente favorevoli esistano pure nelle altre regioni, ad esempio, nelle regioni consumatrici, come sono le nostre province settentrionali, o nelle regioni abitate dalle nazionalità ancora arretrate, come, ad esempio, il Turkestan?
No, non lo si può dire.
È chiaro che il principio di tenere conto delle differenti condizioni delle diverse regioni dell'U.R.S.S., del pari che il principio della volontarietà, è una delle premesse più serie di un sano movimento kolchoziano.
Che cosa avviene invece da noi talora nella pratica? Si può dire che il principio della volontarietà e della considerazione attenta delle condizioni locali non venga violato in una serie di regioni? No, purtroppo, non lo si può dire. È noto, ad esempio, che in una serie di regioni settentrionali consumatrici, dove le condizioni per l'organizzazione immediata dei kolchozy sono relativamente meno favorevoli che nelle regioni cerealicole, ci si sforza spesso di sostituire il lavoro preparatorio per l'organizzazione dei kolchozy con la proclamazione dei kolchozy a colpi di decreti burocratici, con delle risoluzioni, che restano sulla carta, sullo sviluppo dei kolchozy, con l'organizzazione di kolchozy di carta, che non esistono ancora in realtà, ma della cui esistenza parla una valanga di risoluzioni pompose.
Oppure prendiamo alcune zone del Turkestan, dove le condizioni per l'organizzazione immediata di kolchozy sono ancora meno favorevoli che nelle regioni settentrionali consumatrici. È noto che in una serie di regioni del Turkestan vi sono già stati dei tentativi di “raggiungere e superare” le regioni dell'U.R.S.S. che stanno all'avanguardia, e ciò è stato fatto minacciando di far intervenire la forza armata, minacciando di privare dell'acqua di irrigazione e di prodotti industriali quei contadini che non vogliono ancora entrare nel kolchoz. Che cosa vi può essere di comune tra questa “politica” da sergente Priscibeiev [1] e la politica del partito, la quale, nel costruire i kolchozy si basa sopra la volontarietà e sopra la valutazione delle particolarità locali? È chiaro che tra queste politiche non v’è e non vi può essere nulla di comune.
A chi profittano queste degenerazioni, questa collettivizzazione per decreto, queste minacce indegne contro i contadini? A nessuno, eccetto che ai nostri nemici!
A che cosa possono portare queste deformazioni? A rafforzare i nostri nemici e a discreditare l'idea della collettivizzazione.
Non è chiaro che i responsabili di queste degenerazioni, i quali si atteggiano a “sinistri”, di fatto portano acqua al mulino dell'opportunismo di destra?
2 - Uno dei più grandi meriti della strategia politica del nostro partito consiste nel fatto che esso sa scegliere in ogni momento l'anello principale del movimento, aggrappandosi al quale può tirare in seguito tutta la catena verso un unico obiettivo, allo scopo di giungere all'adempimento dei propri compiti. Si può dire che, nel sistema della costruzione dei kolchozy, il partito abbia già scelto l’anello principale del movimento kolchoziano? Si, si può e si deve dirlo.
In che cosa consiste questo anello principale?
Nelle associazioni per la lavorazione in comune della terra, forse? No, non in questo. Le associazioni per la lavorazione in comune della terra, dove i mezzi di produzione non sono ancora messi in comune, rappresentano una tappa già superata del movimento di collettivizzazione.
Nella comune agricola, forse? No, non nella comune. Le comuni sono per ora soltanto un fenomeno isolato nel movimento kolchoziano. Non esistono ancora le condizioni perché le comuni agricole, in cui è collettivizzata non soltanto tutta la produzione, ma anche la distribuzione, diventino la forma dominante.
L'anello principale del movimento kolchoziano, la sua forma predominante nel momento attuale, la forma a cui ci si deve aggrappare ora, è l'artel agricolo.
Nell'artel agricolo vengono collettivizzati i principali mezzi di produzione, soprattutto quelli per la produzione del grano: il lavoro, la coltivazione della terra, le macchine e il rimanente inventario agricolo, il bestiame da lavoro, gli edifici agricoli. Non sono invece collettivizzati: il terreno attinente alla casa (piccoli orti e giardini), gli edifici a uso di abitazione, una parte del bestiame da latte, il bestiame minuto, il pollame da cortile, ecc. L'artel è l'anello principale del movimento di collettivizzazione perché è la forma più adatta alla soluzione del problema del grano, e il problema del grano è a sua volta l'anello principale nel sistema di tutta l'agricoltura, perché se non si risolve il problema del grano non è possibile risolvere né il problema dell'allevamento del bestiame (minuto e grande), né il problema delle culture industriali e speciali, che forniscono le materie prime fondamentali per l'industria. Ecco perché l'artel agricolo è in questo momento l'anello principale nel sistema del movimento kolchoziano.
Da queste considerazioni parte lo “Statuto modello” del kolchoz, il cui testo definitivo viene pubblicato oggi. (“Pravda”, 2 marzo 1930). Da queste considerazioni devono partire anche i nostri lavoratori di partito e delle amministrazioni sovietiche, uno dei doveri dei quali consiste nello studiare questo statuto nella sua sostanza e nell'applicarlo integralmente.
Tale è la direttiva del partito in questo momento.
Possiamo noi dire che questa direttiva del partito venga applicata senza deroghe e senza deformazioni? No, non possiamo dirlo, purtroppo. È noto che in una serie di regioni dell'U.R.S.S., dove la lotta per l'esistenza dei kolchozy è lungi dall'essere terminata e dove gli artel non si sono ancora consolidati, si fanno dei tentativi di saltare al di là del quadro dell'artel, e di lanciarsi senz'altro verso la comune agricola. L'artel non si è ancora consolidato, e già si “collettivizzano” le abitazioni, il bestiame minuto, il pollame da cortile, e inoltre questa “collettivizzazione”, poiché non esistono ancora le condizioni che la rendano necessaria, degenera in una burocratica fabbrica di decreti. Si potrebbe pensare che il problema del grano nei kolchozy sia già risolto, che esso sia già un momento superato, che il compito essenziale nel momento attuale non sia la soluzione del problema del grano, ma del problema dell'allevamento del bestiame e del pollame.
Di grazia, a chi è utile questo lavoro “balordo”, che consiste nel gettare in un sol sacco le diverse forme di collettivizzazione? A chi servono questi salti stupidi e nocivi in avanti? Irritare il contadino kolchoziano con la “collettivizzazione” delle abitazioni, di tutto il bestiame da latte, di tutto il bestiame minuto, del pollame da cortile, nel momento in cui il problema granario ancora non è risolto, nel momento in cui la forma kolchoziana dell'artel ancora non si è consolidata; non è forse chiaro che una simile “politica” può essere utile e gradita solo ai nostri nemici giurati? Uno di questi
“collettivizzatori” ultra zelanti arriva al punto di dare all'artel un ordine nel quale impone di “censire entro tre giorni tutti i capi di pollame da cortile di ogni famiglia”, al punto di istituire la funzione di “comandanti” speciali per il censimento e la vigilanza, con il compito di “occupare nell'artel i posti di comando”, di “dirigere la battaglia per il socialismo, senza abbandonare il posto” e - si capisce - di tenere tutto l'artel nel proprio pugno. È questa una politica di direzione dei kolchozy, o non è forse una politica di disgregazione e discredito di essi? E non parlo di quei “rivoluzionari”, per così dire, i quali incominciano l'organizzazione dei kolchozy con lo staccare le campane delle chiese. Staccare le campane, questo sì che è da rivoluzionari!
Come sono potuti sorgere nelle nostre file questi balordi esercizi di “collettivizzazione”, questi tentativi ridicoli di saltare al disopra di se stessi, tentativi che hanno lo scopo di eludere le classi e la lotta di classe, ma che di fatto portano acqua al mulino dei nostri nemici di classe? Essi sono potuti sorgere solamente nell'atmosfera dei nostri successi “facili” e “inattesi” sul fronte della costruzione dei kolchozy. Sona potuti sorgere soltanto come risultato di stati d'animo balordi esistenti in una parte del partito: “Tutto possiamo!”. “Che c'importa degli ostacoli!”. Sono potuti sorgere soltanto in conseguenza del fatto che ad alcuni nostri compagni i successi hanno dato alla testa ed essi hanno per un istante perduto la lucidità dello spirito e la chiara comprensione delle cose.
Per raddrizzare la linea del nostro partito nel campo dell'edificazione kolchoziana, è necessario porre un termine a queste tendenze.
Questo è oggi uno dei compiti immediati del partito.
L'arte di dirigere è cosa seria. Non si deve restare indietro al movimento, perché restare indietro vuol dire staccarsi dalle masse. Ma non si può nemmeno correre troppo in fretta, perché correre troppo in fretta vuol dire perdere il contatto con le masse. Chi vuole dirigere il movimento e in pari tempo tenersi legato a masse di milioni di uomini, deve condurre la lotta su due fronti, sia contro chi resta indietro, sia contro chi corre troppo in fretta.
Il nostro partito è forte e invincibile perché, guidando il movimento, sa mantenere e moltiplicare i suoi legami con masse di milioni di operai e di contadini.
<<Pravda>>, N. 60.
2 marzo 1930.
[1] “Sergente Priscibeiev”: - tipo di soldataccio, guardiano implacabile dell'ordine e del buon costume, tolto dal racconto di Cecov che porta questo titolo.
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